Contributo per un intervento regionale sul diritto alla casa
L’emergenza abitativa galoppante nella nostra regione che si è violentemente imposta nella vita delle fasce popolari negli ultimi anni è la conseguenza di politiche nazionali e locali volte a favorire la speculazione e la rendita che vengono spinte alle estreme conseguenze dal manifestarsi dell’attuale crisi economica. Possiamo schematicamente far coincidere con la fine dell’equo canone e l’approvazione della 431/98, regalo del governo Dalema, l’inizio di questo percorso, una legge che liberalizza i canoni di locazione e che porta con sé la fine del finanziamento dell’edilizia residenziale pubblica con la soppressione della gescal, la svendita del patrimonio pubblico, case e soprattutto suolo e l’inizio di un processo di privatizzazione degli ex IACP. La regione Emilia-Romagna adegua la propria legislazione approvando nel 2001 la legge 24, con la quale si allinea ai provvedimenti nazionali. La gestione del territorio che è venuta a determinare in questa regione dal dopo guerra a oggi e le conseguenze dei mutamenti internazionali a seguito degli stravolgimenti che ha portato con sé l’89, hanno fatto si che la strettissima rete di relazioni, definita da alcuni un vero e proprio “consorzio”, tra ambito politico, economico, sindacale, culturale abbia modificato i rapporti di forza al suo interno, facendo emergere il primato dell’economia, che in questa regione si può ricondurre al mondo cooperativo e alle sue associazioni di riferimento, che delle caratteristiche mutualistiche del passato mantengono solo il nome e il vanto. Queste diventano la bussola che guida l’agire della politica e del sindacato. Tra tutti i settori il comparto dell’edilizia costituisce uno dei settori trainanti e si fa quindi in modo che su questo convergano le scelte del consorzio. Il tutto prende corpo in un periodo storico in cui ci si illude che il benessere sia in continua espansione, in una regione in cui non si vede lo spettro della disoccupazione, che fonda la sua solidità sul così detto modello emiliano, un modello di produzione fondamentalmente basato sulla piccola e media impresa con un discreto standard tecnologico e concorrenziale sul piano internazionale, che è all’inizio di un cambiamento sociale dovuto a un’immigrazione sia nazionale (giovani del sud), che extra nazionale, ma con quasi vent’anni di ritardo rispetto al famoso triangolo industriale e che ancora riusciva a ridistribuire reddito attraverso un welfare considerato d’eccellenza nel panorama nazionale. Fino a quando questo quadro è riuscito a garantire il benessere dei più, pur ovviamente portando con sé delle contraddizioni, che erano però relegate nell’ambito della marginalità sociale, anche la questione abitativa non si è manifestata. Come nel resto d’Italia, e anche di più, la scelta è stata indirizzata verso l’acquisto, anche a credito attraverso l’accensione di mutui, vista la convenienza raffrontando i prezzi dell’affitto con quelli della rata. Una certa porzione veniva garantita dal patrimonio di case popolari ereditate dalle amministrazioni precedenti, patrimonio che se pur risicato paragonato ad altre nazione europee era al primo posto in percentuale pro capite dal punto di vista nazionale. Altre formule si affiancavano rivolte alla così detta fascia grigia, ovvero chi non poteva accedere alla casa popolare per reddito né all’acquisto per lo stesso motivo, come le cooperative a proprietà indivisa. Elementi di tensione sul tema casa erano fondamentalmente introdotti da quei settori che si spostavano in Emilia per lavoro, ma soprattutto per studio sui quali il mercato dell’affitto ha ampiamente speculato facendo lievitare i prezzi senza spesso rispettare neanche le minime norme contrattuali nella più totale impunità. Se già nei primi anni del 2000 si possono intravedere le prime avvisaglie di un cambiamento di fase, queste deflagrano nel 2008, quando la parola crisi diventa patrimonio comune. In Emilia Romagna il comparto manifatturiero, e tutto l’indotto dei servizi all’industria, settori di punta dell’economia regionale, sono ai minimi storici, l’occupazione vede una drastica battuta d’arresto, si passa da tassi di disoccupazione del 2,5-3% all’8% in soli due anni, la cassa-integrazione vede percentuali inedite (abbiamo paesi di 13000 abitanti con 3500 cassa-integrati), l’accesso al reddito è quindi drasticamente ridotto e contemporaneamente le amministrazioni regionali e locali si adoperano per portare avanti lo smantellamento di quel welfare d’eccellenza, tagliando servizi e aumentando le tariffe, che aveva da sempre costituito reddito indiretto. L’impatto sulla spesa è immediato e la prima spesa che “salta” è quella legata al costo dell’abitare, affitto e rata del mutuo, poiché sono arrivate ad incidere per oltre il 60% sul salario. Le conseguenze sono note a tutti noi, la crescita esponenziale del numero degli sfratti per morosità che si attesta intorno al 25% annuo a livello regionale, con picchi territoriali del 50%, e l’insolvenza dei mutui prima casa, che stanno emergendo più lentamente solo perché le banche stanno posticipando la data dell’esproprio nel timore di non riuscire neanche a rientrare delle spese sostenute. Se incrociamo questa nuova situazione, che nel frattempo inoltre è stata profondamente condizionata da una immigrazione di larga entità, vaste zone dell’Emilia Romagna presentano percentuali di residenti immigrati significativamente superiori alla media nazionale, con il quadro legislativo e le scelte speculative accennate precedentemente si comincia a comprendere l’entità del problema abitativo. Gli attivisti sociali che hanno deciso di occuparsi della questione casa si trovano immediatamente a lavorare con l’ultimo anello di questa catena di eventi, ovvero la perdita definitiva dell’alloggio nelle più parte determinata dallo sfratto per morosità. Se da un lato questo elemento ci porta a dover lavorare su una contingenza drammatica per chi lo vive, ponendoci di fronte a un lavoro che deve tenere insieme interessi immediati a un progetto di più lunga durata, dall’altro ci offre un tema che può consentire di risalire la catena stessa e di andare a toccare i nodi cruciali delle scelte politiche ed economiche sul piano abitativo. Questo può essere possibile solo se il piano del conflitto viene portato allo stesso livello del piano dell’attacco, in un quadro dove tutte le forze in campo, da quelle politiche, a quelle amministrative, da quelle economiche a quelle sindacali concertative lavorano nella direzione contraria agli interessi di un settore sociale oggi diviso, frammentato e nella più parte dei casi impegnato nel condurre una guerra ai propri simili. La costruzione di un livello più alto del conflitto non deve tralasciare nessuno spazio, e nell’attuale situazione emiliano romagnola in cui stanno nascendo vari gruppi che tentano di muoversi sul piano locale, cioè sulla città di riferimento, è necessario affiancare una cooperazione, una discussione e un coordinamento sul piano regionale, oggi più che mai, viste le spinte federaliste che si stanno velocemente concretizzando e che stanno portando le regioni ad acquisire una capacità legislativa ed economica di molto superiore al passato. Dalla legge 24 del 2001 sono passati 10 anni, ma a questa se ne sono affiancate altre, non ultima la declinazione locale del piano casa del governo Berlusconi, che in salsa emiliana ha aumentato il premio di cubatura e non ha neanche cercato trattare il problema sfratti, mutui o caro affitti, alla quale è seguito l’aggiornamento regionale sull’housing sociale, prevedendo stanziamenti per l’ERP solo come straordinari in modo da mantenere viva l’emergenza, sulla quale a sua volta si crea un’economia speculativa, ed infine per relegare anche solo l’idea di casa popolare a “welfare dei miserabili”. L’individuazione della Regione come controparte, non solo trova motivo nella sua autonomia decisionale ed economica sul tema casa, ma per quanto riguarda l’Emilia Romagna e soprattutto il territorio che si svolge lungo la via Emilia, si ritrova un’omogeneità politica, economica, culturale, oltre a praticamente un’assenza di soluzione di continuità da Bologna a Parma, che ci consente di identificarla come un’area metropolitana. Considerare l’area metropolitana vuol dire capire ciò che apparentemente appare scollegato consentendoci non solo di interpretare un meccanismo ma anche di contestualizzare e valutare le battaglie, vinte o perse, che ognuno di noi conduce sul proprio territorio.
Dobbiamo quindi lavorare per una vera inversione di tendenza, trovando le modalità che ci consentano di rendere concreto lo slogan “una casa per tutti”.
Se è vero che la richiesta di una moratoria degli sfratti per morosità non attiene direttamente alle competenza regionali è anche vero che un’amministrazione di tale entità si potrebbe e si dovrebbe esprimere chiaramente sulla necessità di un simile provvedimento, inoltre può indirizzare le proprie risorse in un’altra direzione. Per questo è necessario portare avanti richieste che possano scardinare il meccanismo legislativo tutto teso a favorire la rendita, esempi fra l’altro mutuati da altre regioni sono:
-vincolare il 3% del bilancio regionale all’edilizia residenziale pubblica.
-utilizzare il fondo regionale sull’housing sociale per acquistare gli alloggi di chi oggi è sotto sfratto o insolvente al mutuo prima casa .
Queste due proposte, rivedibili e perfezionabili, anche se parziali possono consentire di ricomporre anche la frammentazione che porta con sé il piano abitativo, infatti non parla solo agli sfrattati, ma anche a chi subisce il caro affitti, a tutti coloro che aspirano ad un alloggio popolare e anche a chi ce l’ha già ma si sente relegato in un ghetto (non dimentichiamo che si tenta anche di svalorizzare l’erp lasciandolo privo di manutenzione e creando aree ad alta tensione sociale). Abbiamo la necessità di avviare un confronto sulla pratica, che ci consenta di mettere alla prova ciò che di condiviso è emerso dal dibattito, per poter verificare la fattibilità, per aggiustare il tiro, per selezionare gli strumenti, stabilendo anche periodici e franchi momenti di verifica. Le modalità di resistenza e lotta che ci hanno accompagnato fino ad oggi, come presidi anti-sfratto e occupazioni sono ovviamente una parte imprescindibile degli strumenti del movimento di lotta per la casa che devono essere rafforzati in una dimensione più ampia come quella regionale. Ad esempio in prospettiva rispondere a uno sgombero o ad altri attacchi repressivi con iniziative in più città potrà dare risultati diversi. Dobbiamo quindi cominciare a discutere anche di quali strumenti legati alla comunicazione e al confronto fra di noi abbiamo bisogno (periodicità degli incontri, mailing list, eventuali referenti ecc..) e quali per l’esterno (manifesti, volantini, materiali di approfondimento ecc…). Inoltre la gestione in contemporanea in diverse città con le stesse parole d’ordine o un appuntamento comune nello stesso luogo devono cominciare ad essere sperimentate per poter essere chiaramente individuabili come un movimento che condivide azioni, prospettive e mutuo appoggio.
BolognaPrendeCasa