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Memorie di inquilini resistenti, dedicato a tutte le donne

8 Marzo 2010

La casa per sfollati, sfrattati e inquilini a Bologna

di Fernanda Tagliavini*

Nel 1945, appena finita la guerra, il partito mi chiamò per collaborare alla ricostruzione dell’organizzazione degli inquilini. Infatti, prima dell’avvento del fascismo esisteva la Lega degli inquilini, il cui segretario era l’avvocato Leonida Casali. La lega subì poi la stessa sorte della Camera del lavoro: assalto di squadracce fasciste, devastazioni fin quando (come la Camera del lavoro) non venne sciolta e gli inquilini che avevano bisogno di informazioni dovevano rivolgersi all’associazione della proprietà edilizia, unica organizzazione rimasta in vita.

La proposta mi entusiasmò, anche se per me si trattava di un impresa ardua; ero infatti completamente ignorante della materia e anche un po’ timida. Mi misi con lena e buona volontà a studiare codice e legge, ma debbo molto ai compagni della Lega fornaciai e muratori, che con noi dividevano una stanza, se seppi acquisire grinta e personalità.
Esistevano un comitato direttivo molto largo con quasi tutte le correnti politiche (che si sciolse con la scissione sindacale) e un legale. Presidente venne nominato l’avvocato Casali, la sede fu fissata presso la Camera del Lavoro. L’arredamento era composto da un tavolo, un tavolino, poche sedie e una vecchia macchina da scrivere. Si riceveva il pubblico tutti i giorni e il legale veniva una volta la settimana, ma pretendeva che le informazioni di sua pertinenza mandassi gli inquilini nel suo studio o andassi io stessa a sottoporgli i quesiti (da notare che ogni giorno, per la drammaticità della situazione, venivano decine e decine di sinistrati e sfollati, che formavano lunghe file in attesa di essere ricevuti).

Mentre il contatto con il pubblico, dare informazioni, mi riusciva abbastanza facile, più difficile era per me vincere quella certa timidezza. Ad esempio, quando entrava il legale correvo a cercargli la sedia e gli restavo ossequiosamente vicina sempre pronta a servirlo. I compagni fornaciai mi fecero comprendere che tra il rispetto e il servilismo c’era differenza e che quando veniva il legale non dovevo servirlo, ma doveva prendere da sé la sedia e prendere posto al mio fianco.

La prima volta che sotto il loro attento sguardo dovetti impormi questo comportamento, la cosa si dimostrò veramente buffa.
Entrò il legale; stavo per alzarmi. I compagni mi guardavano con severità, mi sedetti nuovamente tutta rossa in viso, sulla punta della sedia. La cosa si ripeté per due o tre volte ma riuscii a resistere e il legale si decise ad andare lui a prendersi la sedia, stupito del mio comportamento. Avevo vinto, con grande soddisfazione dei compagni. A quel banale episodio ne seguirono altri, che mi fecero comprendere che anche quando si è dalla parte della ragione, occorrono forza e grinta per farla valere. Quindi, mi diedi da fare per conoscere altri giovani legali disposti a venire in associazione, costringendo perciò anche il primo a essere presente in sede più volte, evitando agli inquilini e a me stessa l’onere di recarsi presso lo studio, con un maggior prestigio, così, dell’organizzazione.

Intanto la situazione si faceva sempre più pesante. Le scuole, le caserme, i portici di San Luca erano occupati dai sinistrati insieme a numerosi appartamenti di famiglie sfollate fuori Bologna.
Cominciarono così i primi sfratti. Ricordo ancora la prima volta che venne da me una signora dicendo che l’ufficiale giudiziario e la forza pubblica volevano buttarla fuori di casa. Che cosa si doveva fare? Chiesi pareri ai compagni, ma nessuno sapeva darmi un indirizzo, inforcai la bicicletta e mi recai sul posto per parlamentare con l’ufficiale giudiziario e il proprietario al fine di ottenere una proroga, ma nulla da fare.
Allora mi balenò un idea: andai alla stazione, dove lungo i binari lavoravano molti operai: prospettai loro la situazione e la necessità di intervenire per sospendere di forza lo sfratto. Sospesero subito il lavoro e vennero con me; erano circa ottanta uomini. Il risultato fu ottimo, il maresciallo dei carabinieri sospese lo sfratto per la tutela dell’ordine pubblico. Eravamo verso la fine del 1946.
Avevo capito che quella per il momento era la sola strada da seguire, e decine di sfratti furono sospesi con quel sistema. Avevo intrecciato una certa intesa con alcuni ufficiali giudiziari i quali, pur costretti a fare il loro ingrato dovere, si rendevano conto di quanto fosse inumano mettere sul lastrico delle famiglie senza nessuna prospettiva e con quello che avevamo da poco passato; tante volte mi avvertivano loro stessi del giorno e dell’ora dell’esecuzione. Una volta riuscii a far fissare otto sfratti nello stesso giorno. Non si fece opposizione; caricare le masserizie su carri e carrettini, cominciammo a sfilare per le vie del centro per andarci poi a fermare davanti alla prefettura. La cosa fece un certo scalpore, il comune non aveva nessuna possibilità di intervento, la prefettura e l’ufficio requisizione degli alloggi faceva orecchie da mercante su certe ville signorili vuote. Poiché mi avevano segnalato che alla Zucca, vicino al deposito dei tram, vi era una grande villa completamente vuota, vista vana ogni richiesta amichevole ci andammo, facemmo saltare un grosso lucchetto e cominciammo a scaricare. Avevamo già predisposto i locali per ogni famiglia quando arrivo un nipote del proprietario accompagnato dai carabinieri che in malo modo ci fece uscire; ricaricammo tutto e andammo ad accamparci in piazza Roosevelt sotto il portico davanti alla prefettura dove restammo per una settimana giorno e notte. Io e un altro compagno ci alternavamo per non abbandonare gli sfrattati neppure di notte; di giorno, invece, facevo continue delegazioni che portavano dalla prefettura alla questura finchè in una riunione straordinaria con il prefetto, il questore e il capo del commissariato degli alloggi non decisero di requisire la villa. Tornammo così sul posto, accompagnati dai carabinieri ma per prenderne regolare possesso. Da quella volta la prefettura diede ordine di non mettere più i mobili sulla strada ma solo le persone.

Un altro episodio che per me ebbe una certa importanza fu quando il comando generale delle forze armate decise di sfrattare le famiglie di sfollati che avevano occupato la palazzina adiacente la caserma di viale Vicini. Anche in quella occasione dovetti impostare insieme alle famiglie una grossa battaglia. Il capitano con il quale dovevo continuamente parlare ci trattava un po’ dall’alto in basso, voleva costringere le famiglie a prendere posto alle “casermette rosse”, per nulla ristrutturate e indecenti. Con l’aiuto dei compagni dell’Unità scrissi alcuni articoli un po’ piccanti contro il comando. Fu cosi che una sera un capitano accompagnato da una impiegata del genio militare mia conoscente mi invitò a recarmi al comando perché il generale voleva parlarmi. Mi portarono in via Galliera. Dalle porte socchiuse vedevo ufficiali che sbirciavano. Chissà chi penavano di veder arrivare, forse un personaggio importante, se generale e giornalisti mi attendevano. Dopo una lunga discussione il generale ordinò che un altro capitano si interessasse alla questione e che mi accompagnasse alle “casernette rosse” per apportarvi tutte le modifiche e fare i lavori necessari a rendere più abitabili e igenici i locali.

Sempre a proposito di sfratti, la società Barbieri & Burzi aveva una palazzina vicino alla fabbrica interamente occupata da sfollati.
La direzione, con il pretesto di adibirla a uffici, decise di sfrattare gli inquilini. Ottenuta la sentenza a suo favore, diede inizio alle operazioni di sgombero. Alcune volte adottammo il solito sistema; poi, con pretesti di malattie, riuscimmo a ottenere delle proroghe, ma la direzione della Barbieri & Burzi era un osso duro e la prefettura mi comunicò che le famiglie dovevano uscire e che ogni forma di lotta sarebbe stata stroncata con la forza. Quella mattina suggerii agli uomini di andare al lavoro, sul posto rimanemmo lo io e le donne. Verso le dieci arrivarono il direttore e l’ufficiale giudiziario scortati da un nucleo della celere comandato da un capitano, tutti in assetto di guerra, con tanto di casco in testa. Francamente una cosa del genere l’avevo vista solo nelle manifestazioni di piazza. Quando ci intimarono la consegna delle chiavi, non solo ci rifiutammo ma non nascosi personalmente tutto il mio disprezzo e dissi rivolta alle donne:
“Oggi ci sentiamo veramente orgogliose, perché con un apparato simile ero convinta partissero per la Corea, invece sono proprio qui per noi.”
Allora cominciò la carica, manganellate, urti, spintoni, era una cosa impressionante! Purtroppo quella volta avemmo la peggio e le famiglie vennero sistemate in locali di fortuna e in alberghi procurati dal comune.
Un’altra esperienza che richiese tutto il mio coraggio fu quando presi la decisione di assistere gli inquilini in tribunale nei procedimenti di rilascio e per ottenere più proroghe. Finalmente, dopo tante lotte, nel 1950 uscì una legge che disciplinava la materia e riconosceva, nei comuni una carenza i alloggi, la facoltà ai pretori di concedere lunghe proroghe. Preparavo quindi le istanze e accompagnavo gli inquilini alle udienze. Non nascondo le difficoltà incontrate, molte volte sono stata fatta tacere o addirittura messa alla porta, ma, con caparbietà e pazienza, sono riuscita nell’intento. Alla fine, se tardavo mi aspettavano sia gli avvocati che lo stesso giudice.
Debbo dire che in questo lavoro ho avuta tanta solidarietà, comprensione e appoggio dai giudici. Ho continuato a prestare questa attività fino al 1979, anche dopo che ero andata in pensione. Sempre con tanta passione, convinta di dare un aiuto alle famiglie meno abbienti e un contributo anche al mio partito. Mi sentivo orgogliosa quando in tribunale mi indicavano come comunista. Mi chiamavano la mamma degli inquilini e proprio con questo appello il partito mi presentò alle elezioni per il consiglio comunale del 1956, non per essere eletta ma per raccogliere voti (cosi mi disse Enrico Bonazzi). Con mia grande soddisfazione fui la prima o la seconda dei non eletti. Entrai in consiglio a seguito di una grande perdita, la morte del compagno Abramo Tomba. Avrei preferito non entrarvi mai.

* Fernanda Tagliavini (Nata a Zola Predosa, Bo, 1916, iscritta al Partito Comunista Italiano nel 1945.

Tratto da: Comunisti, i militanti bolognesi del PCI raccontano, Editori Riuniti, 1983

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